La Porta Di Dite – La follia reclusa
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L’uomo che faceva stumph, il piccolo delinquente folle, più folle che delinquente, il ragazzo con la bontà scambiata per scemità ed il signore dei pidocchi, così come tanti altri personaggi anonimi, strampalati e grotteschi, sono i protagonisti di racconti di vita e follia ambientati in una galera italiana degli anni novanta.
Alla galera si accede mediante la Porta di Dite, oltre la quale si dischiude la vita del carcere e si palesano i paradossi di un luogo che, pensato per punire e riabilitare, in realtà concentra la parte più grave del disagio psichico sociale ed un forte bisogno di cura, specie dopo la chiusura del manicomio.
La frustrazione di fronte alla follia reclusa in una galera che abbrutisce, non riabilita, e tanto meno cura, rappresenta il collante dei racconti che il dottor Matteo Pieraccini, psichiatra di quel carcere, ha raccolto in un memoriale rivolto a un interlocutore che resta inspiegabilmente silente e anonimo.
È evidente, sin dall’inizio, che il dottor Pieraccini è legato al suo interlocutore da un amore intenso, un orribile segreto ed un progetto oscuro.
Lo scopo con il quale egli ha composto il memoriale non è chiaro, perché lascia irrisolto il suo confronto con il tema della colpa, per aprire il dilemma, per lui altrettanto insolubile, della eutanasia.
Il memoriale, lasciato incustodito, verrà trovato anni dopo da chi non può tacere quel segreto, malcelato dietro un enigma, e riporterà il dottor Pieraccini tra la perduta gente della Dite terrena, e dove, ormai vinto dal proprio destino, avrà finalmente chiaro il mistero del convento domenicano, dove tutto ha avuto inizio.
«Chissà cosa fa di un uomo un essere umano. Certo che in quel luogo infernale, che poi era un manicomio criminale, l’uomo sembrava abitare altrove.
La sofferenza psichica, quella del folle, percorreva ancora i corridoi disadorni della reclusione, raggelati dal freddo dell’indifferenza, come fossero il prodotto di un incubo dove all’Uomo non era dato sentirsi tale.
Per disgrazia quell’incubo era invece una realtà concreta.
Lo era per alcune povere donne, chiuse alla maniera di un pollo in gabbia, benché folli, dentro una cella che non aveva niente di sanitario, tanto meno di psichiatrico, alla destra di un corridoio illuminato da barre al neon, bianche di giorno, celesti dì notte, sul quale si portava il passo lento e forzatamente marziale di una guardia mesta, la ragazzina soldato»
Pathos Edizioni – Marzo 2022
Massimo Scalini, (1959) nasce a Marradi, nell’Alto Mugello, che diede i natali al poeta Dino Campana. Si trasferisce a Firenze per frequentare la Facoltà di Medicina e si specializza in Psichiatria.
Consegue altre due specializzazioni, prima in Sessuologia Medica e poi in Psicoterapia Cognitiva.
Da più di trent’anni la sua attività di psichiatra lo vede impegnato tra la libera professione, che svolge presso il suo studio fiorentino e la Casa di Cura sulle colline della città.
Ha lavorato come Consulente Psichiatra per il Ministero della Giustizia.
Nel contesto carcerario ha potuto allargare i suoi orizzonti, e da questa decennale esperienza trae spunto il romanzo La Porta di Dite. Con l’esperienza penitenziaria vede la genesi anche la rivista Il Reo e il Folle, di cui è stato membro del comitato di gestione.
Nel 2016 pubblica, come coautore, il saggio La Toga e il Camice, riflessioni sulla responsabilità penale dello psichiatra. Dal 2017 è membro del Comitato Scientifico Centro Studi Campaniani, impegnato nella divulgazione culturale del poeta dei Canti Orfici. Ha da poco partecipato alla stesura del saggio Trent’anni per Dino Campana con altri studiosi di alto calibro. È amante della musica rock e dei viaggi, soprattutto quelli fuori dai circuiti comuni in cui ci si può perdere.